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8 Gennaio 2015

La prima volta di Vittoria Puccini

Vittoria Puccini dal 20 al 25 gennaio al Teatro della Pergola di Firenze

Fiorentina doc, figlia di un professore universitario e di una maestra, un nonno importante, Guido Morozzi, uno dei padri fondatori della storia culturale di Firenze del dopoguerra, Vittoria Puccini, ha frequentato il liceo classico diplomandosi a pieni voti.

Il futuro aveva previsto per lei una laurea in giurisprudenza all’ombra del Cupolone, ma giusto prima dell’iscrizione Vittoria va a Milano a trovare degli amici. Partecipa quasi per gioco al provino per un film di Sergio Rubini e…tutto cambia.

Prima è Gaia in Tutto l’amore che c’è di Sergio Rubini appunto, e poi Elisa di Rivombrosa nell’omonima serie televisiva diretta da Cinzia Th Torrini, per diventare, sul grande schermo, pochi anni dopo, l’attrice cult di registi come Gabriele Muccino, Lizzani, Pupi Avati, Ozpetek e Paolo Genovese.

Dopo quindici anni di brillante carriera, una relazione importante alle spalle con l’attore Alessandro Preziosi, ecco che Vittoria si appresta ad affrontare due nuove sfide: una fiction dedicata a Oriana Fallaci con la regia di Marco Turco, in onda su Rai Uno a febbraio, e, per la prima volta, il teatro con debutto in prima nazionale alla Pergola dal 20 al 25 gennaio, in uno dei ruoli immortali della drammaturgia del Novecento, Maggie La gatta sul tetto che scotta di Tennessee William a fianco di Vinicio Marchioni, il Freddo nella serie Tv Romanzo Criminale di Stefano Sollima, per la regia di Arturo Cirillo.

Esordire in teatro con una pièce di questo calibro, non capita tutti i giorni…
Partirei piuttosto dall’inizio, esordire in teatro: mi ci sono voluti due anni prima di decidermi a farlo. Ero bloccata da una sorta di timore reverenziale che ho sempre avuto per il teatro, temevo di affrontare qualcosa che non avevo mai fatto, di confrontarmi faccia a faccia con il pubblico, ogni sera, e ogni sera diverso. Un incognita costante, e magica al tempo stesso, perché l’energia che il pubblico ti trasmette ti porta ad accordarti ogni sera in maniera diversa.

E invece, poi che cosa è successo?
Quest’anno è scattato qualcosa che mi ha fatto accettare la proposta del produttore di questo spettacolo, Marco Balsamo. Ho sentito che forse era davvero venuto il momento di affrontare questa esperienza per la mia crescita artistica e professionale. E dopo il lungo lavoro di allestimento dello spettacolo, dopo le prove con gli attori, il confronto costante con il regista, mi sono resa conto che era ciò di cui avevo bisogno.

Quali sono le differenze più marcate che ha riscontrato fra cinema e teatro?
Sicuramente i tempi della preparazione. Quelli in teatro sono ben più lunghi che nel cinema, dove spesso le prove avvengono direttamente sul set. In teatro c’è un grande lavoro di scavo, di ricerca e di approfondimento. Prima ancora delle prove in piedi, c’è quell’importante e rassicurante fase di studio a tavolino, durante la quale ciascuno ha il tempo di entrare nelle pieghe più profonde del proprio personaggio, il riscontro continuo con il regista.

Come definisce invece il film su Oriana Fallaci?
Un’esperienza molto bella sia di studio che preparazione sul personaggio di questa donna forte e coraggiosa e anche del contesto storico di cui lei è stata protagonista in modo molto attivo, è stata un’esperienza che mi ha arricchito moltissimo, faticosa ma molto gratificante.

Firenze è la prima cosa in comune che balza all’occhio tra lei e la Fallaci, qual è oggi il suo legame con questa città?
Anche se abito a Roma da molti anni, tutta la mia famiglia vive qui, compresi i miei più cari amici. Firenze è il luogo caldo degli affetti. Quando torno a casa dei miei genitori, che si trova sulle colline appena fuori città proiettate sul Chianti e verso Siena, il cuore mi si apre. Qui mi rigenero come in nessun’altra parte del mondo.

In quale parte del centro si sente più a suo agio?
Le rampe di Piazzale Michelangelo. Da laggiù si scorge uno dei più generosi panorami della città data l’ampia visuale, ma per uno strano scherzo della prospettiva si ha l’illusione di poter allungare la mano e toccare la cupola del Duomo, il campanile di Giotto o di tuffare l’indice nell’Arno anche se scorre qualche chilometro più in basso. 

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