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17 Marzo 2015

Paolo Conte, l’artigiano della musica a Firenze

A tu per tu con il celebre cantautore italiano

Benvenuti a bordo del nostro Aguaplano. Il viaggio inizia adesso. Vi racconteremo di “occhi che si cercano e bocche che si guardano”, il nostro corpo sarà incapace di placarsi al suono di un’”orchestra che si dondola come un palmizio” e l’amore sarà “uno spettacolo d’arte varia”.

A farci strada avremo un comandante d’eccezione, il suo nome è Paolo Conte. Classe 1937, avvocato di Asti, una carriera da cantautore che inizia nel 1974. Prima c’era il jazz, c’era il pianoforte, c’era la costruzione di un Mocambo chiamato poesia.
Lo incontriamo poco prima del suo attesissimo concerto fiorentino (il 12 febbraio all’Opera di Firenze, ndr). Quello che colpisce è la sua umanità, uno sguardo d’altri tempi, una gentile riservatezza da vero Monsieur.

I suoi mondi sono cronache di bellezza, dove l’esotico è l’irraggiungibile e la provincia è il reale. Dove risiede la linfa dei suoi racconti? Si generano attraverso esperienze di vita vissuta o immaginata?
Questo esotismo parte da una forma di pudore: certe storie che potrebbero essere ambientate nella vita quotidiana io le sposto, le mimetizzo e le faccio vivere su altri teatri. I miei testi si generano soprattutto dalla fantasia, sono storie che immagino e sogno.

Usa definire il suo lavoro come artigianato della musica. Ci descriva il laboratorio e gli strumenti che hanno reso i suoi manufatti unici al mondo.
Compongo prima la musica seduto davanti al mio pianoforte, di notte, nel silenzio. Successivamente la canzone attende la sua veste, le sue parole: questo è un passaggio che turba, perché la musica suggerisce sogni molto astratti, poco delineati, di una forza dirompente, mentre le parole ti riportano alla realtà, attutiscono questo sogno e tutto diventa più preciso.
A volte capita di pentirmene, perché vorresti lasciare il sogno così com’è, musica e basta…

Insieme a lei, nella grande reggia del celebre cantautorato italiano, c’erano De André, Bindi, Endrigo, Paoli, Lauzi, Tenco. Quali sono le cose che ricorda di quel periodo?
Voglio essere sincero: ho approfittato di quel periodo e dell’aria fresca che tirava.
Non sono mai stato un cantautore tipico, non provenivo dall’ambiente universitario, nella mia musica non c’erano istanze sociali.
Sono cresciuto con il jazz, ho iniziato scrivendo canzoni solo per gli altri, ero un cantante atipico e godevo dell’aggettivo “alternativo”, che andava molto di moda in quegli anni. Sono stato ospitato in quell’ambiente e il loro pubblico mi ha apprezzato. Tutto qui.

Siamo a Firenze. In quali luoghi di questa città si perderebbe volentieri?
Le confesso di essere un pessimo turista, mi piacerebbe girarla a piedi, senza alcuna meta.

Una parola per descriverci il Jazz
E’ stata una parola molto importante per la mia gioventù. Eravamo pochissimi a scoprirla e a suonarla, da sempre proibita dal fascismo e dalla chiesa.
L’ho inseguita e amata come collezionista di dischi. Adesso, nei miei ascolti, sono tornato indietro, alle sue origini arcaiche, dove non esiste tecnica, solo istinto.

Se avesse un’altra vita a disposizione. Chi vorrebbe essere?
Un grande medico.

Dopo quasi quaranta anni di concerti, che cosa la spinge ad esibirsi con lo stesso calore di sempre?
Il mio pubblico è sempre una bella compagnia e poi che cosa c’è di meglio che passare una serata facendo musica con un’orchestra? Niente.

La più grande paura di Paolo Conte?
La malattia.

Come si sente al pensiero di essere un mito vivente?
Da un lato non mi sembra vero, dall’altro, di nascosto, mi dico: “me lo merito”. 

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