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Scena del film cult 'Amici miei' diretto da Mario Monicelli a Firenze Ph New Press Photo

Umberto Cecchi

1 Aprile 2021

Umberto Cecchi (il "Cecchi di Prato") ci racconta il dietro le quinte del film "Amici miei"

Ecco quello che scrive Umberto Cecchi sul leggendario film ambientato nella Firenze di quarant'anni fa

Un vecchio capocronista di un giornale emiliano, Ernesto Ragazzoni, definito da molti un buon umorista, ha scritto tantissimi anni fa la sintesi più bella e amara della fine di una giornata di lavoro al giornale. Eccola: ‘Il giornale è stampatato / la rotativa si affretta / me ne vado col bavero alzato / dietro il fumo d’una sigaretta'.

Renzo Montagnani, Adolfo Celi, Gastone Moschin, Philippe Noiret on the set of Amici miei - Atto II, 1982. Ph. © Archivio Foto Locchi



È, anticipato di molti decenni, l’inizio amaro, e angosciante, di ‘Amici Miei’. Notte fonda, un cappuccino al bar dove il Perozzi, scapigliato capocronista si improvvisa strillone e distribuisce il giornale, appena uscito, alla puttane che si stanno rilassando dopo una lunga serata di lavoro. A suo tempo quel capocronista mi ha fatto venire il magone. Come oggi, d'altronde. Che dire? Quante giornate ho finito così, in una naturale zingarata notturna con amici e colleghi come Riccardo Berti e Piero Gherardeschi: sosta al forno di Borgognissanti per un cornetto appena sfornato; ricognizione all’aeroporto, che una notte trovammo aperto e deserto e con un barbone che dormiva nell’ATR sulla pista, e che riuscimmo a svegliare solo gridando al fuoco. E quante volte, trovando lungo le strade deserte un’autobotte dei Vigili del Fuoco abbiamo invertito la marcia per seguirla verso l’ignoto. Una notte, di ritorno a casa, sempre con Piero Gherardeschi trovammo in un’auto ferma coi fari accesi, in mezzo alla strada, tre morti ammazzati. Non andammo a letto.

Erano zingarate? No: era una professione alla quale nessuno oggi, tempi cambiati, porta il dovuto rispetto né ci permette o capisce l’essere nostalgici. Era il suo bello: prima di diventare direttori o inviati speciali eravamo stati cronisti.

‘Amici Miei’ nasce a ‘La Nazione’, e io entro nel film comparendo nominalmente nella grande sala della impaginazione, dove ogni notte veniva preparato il giornale. Un collega, Sandro Bugialli, che era redattore delle pagine culturali – che allora esistevano ancora – arriva trafelato e dice al caporedattore: ‘ha telefonato Cecchi da Prato, c’è stato un terribile incidente’...Quello ero io. E quando vidi il film mi prese un tristezza profonda, assoluta: per il Perozzi, che cerca di dimenticare la sua vita rifugiandosi in fughe liberatorie, le cosiddette ‘zingarate’ con un gruppo di amici altrettanto delusi, amareggiati, soli. Quattro fleurs du mal, che poi diventano cinque. Feroci negli scherzi solo come più esserlo un toscano.

Scena del film cult 'Amici miei' diretto da Mario Monicelli a Firenze Ph New Press Photo

Moncelli fa un capolavoro di costume, mette in scena l’ironia più cinica e fredda, dando – come sempre nei suoi lavori – un forte valore all’amicizia grazie alla quale tiene unito un gruppo di disadattati ognuno dei quali cerca se stesso senza mai ritrovarsi: Il Mascetti ha perso il suo patrimonio e un posto fra i nobili; il Perozzi il sogno d’una vita regolare, d’una famiglia; il Necchi, barista in piazza Demodoff, la serenità, ossessionato dal sesso; il Sassaroli è sommerso dalla noia della sua professione e dalla famiglia, cane compeso, che consegna in toto al Melandri, un architetto deluso del suo lavoro e ansioso d’amore. E’ un film sulle cose che non si hanno, quelle perdute; sul ‘nostos’, la nostalgia d’Ulisse per un’Itaca che non trova.

Anche molte delle storie raccontate vengono da ‘La Nazione’: quella più famosa, gli schiaffi ai viaggiatori in treno, me l’aveva raccontata, inizio anni Settanta, il collega Bacher, allora
leggendario cronista di notte. L’aveva vissuta lui: un gruppetto di nottambuli, giovani sciamannati che schiaffeggiava i partenti. A proposito, il Bacher aveva la macchina del Mascetti: americana che scoppiettava ad ogni metro. Lo sentivamo arrivare da lontano con le ‘brevi’ della notte.

Scena del film cult 'Amici miei' diretto da Mario Monicelli a Firenze Ph New Press Photo

Monicelli fa un film di costume che oggi per quelli come me diventa rimpianto: la Firenze di quegli anni era profondamente diversa. Più a misura d’uomo. Meno turisti, meno automobili, notti assolutamente senza ‘movida’. Persino pulita. Provate oggi, come fa il Perozzi, a fare slalom con la macchina in piazza Santa Croce. A correre per strade assolutamente deserte, senza traverstiti, turisti, studenti americani ubriachi a defecare sui marciapiedi. Pronte a organizzare finte sparatorie nel nulla dove oggi c’è il Mandela Forum.

Ugo Tognazzi, Mario Monicelli, Philippe Noiret a 'La Nazione' a Firenze 1982

Un film ‘cult’, da non rivedere nelle sere di malinconia ma assolutamente imperdibile, che chiude la ‘giornata’ con l’ultima zingarata: la morte del Perozzi e un funerale dove la farsa continua, dove la marcia funebre è scandita dal bom bom bom bom bom bom dei quattro rimasti, sul ritmo della loro canzone abituale, accompagnata da lazzi e battute feroci. E il defunto che prima di essere tale – agnostico com’è – fa chiare il prete e si confessa rifilandogli la storia della ‘supercazzola’, tormentone glottologico usato dai cinque nei momenti più diversi. Per confondere e dileggiare chi capiti loro a tiro. Vigili urbani quant'altri. E la ‘supercazzola’ è in fondo la chiave di lettura di una infanzia perduta, amata, è che si cerca di ritrovare: uno scurrile linguaggio infantile preso in prestito da adulti che non avrebbero voluto crescere mai.

Più di un critico ha scritto che il funerale del Perozzi è ‘eccessivo’: di un cinismo e un’ironia improbabili. Io lo trovo di una classicità toscana assoluta. Ero gravemente ammalato in ospedale ad Arezzo quando vennero a trovarmi quattro amici: un sottosegretario di Stato, un primario medico, un sindaco e un necroforo della Misericordia. In fila in fondo al letto mi guardavano ironici mentre il necroforo mi prendeva le misure, spiegandomi: ‘per la bara. Sai stando a letto ci si allunga’. Li feci cacciare via con l’ultimo filo di voce che avevo.

Scena del film cult 'Amici miei' diretto da Mario Monicelli a Firenze Ph New Press Photo

Questa è la beffa toscana. Quella del Machiavelli nella ‘Madragola’ o del Boccaccio nel ‘Decamerone’. Dove lo scherzo arriva a un cinismo esasperato, feroce, crudele, eppure senza cattiveria. Solo ludico. E’ il breviario di vita dei cinque che Monicelli su idea di Pietro Germi ha regalato al cinema italiano. Cinque creature che sono il risultato di modelli realmente esistiti e che oggi sono il modello per gli ‘Amici miei’ del nostro tempo. Che tuttavia non sono mai riusciti ad uguagliare la spontanea, dolorosa, amara e creativa
ricerca di vita di quei magnifici cinque cialtroni in cerca di una morale che non trovano. Che non hanno.



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