Oriana Fallaci
Oriana Fallaci, Firenze e la sua voglia di vita infinita. Appunti di un’amicizia timida e litigiosa
Si può ancora parlare di Oriana Fallaci, come fiorentina, o piuttosto come newyorkese, dal momento che la città americana le ha dedicato molte cose e Firenze, al contrario l’ha assolutamente ignorata. Mandandola al cimitero senza neppure un ultimo saluto?
Io credo che Firenze non abbia meritato Oriana, ma credo anche ci sia modo di rimediare. Adoperando un minimo di intelligenza e di buona volontà. Io conosco l’amore di lei per la città nella quale ha fatto la staffetta partigiana, ha difeso i suoi monumenti, ha raccontato la sua storia al mondo intero, con l’orgoglio di farne parte, e dove ha vissuto i suoi piccoli e gran di amori: quello per suo padre che le aveva insegnato a essere libera, ironica e fiorentina, e quello per Panagulis, il poeta greco, con il quale in riva d’Arno ha vissuto giorni che, mi diceva lei nelle sere di nostalgia, ovunque fossimo, erano stati pieni di una vita ricca di emozioni, di progetti impossibili, di sfide al mondo intero. Nel Cimitero degli Allori, accanto alla sua tomba e a quelle della sua famiglia, c’è il cippo dedicato a Alekos Panagulis: quello che lei in un libro, ha definito ‘Un uomo’. E con il quale, nella sede dei Psi, nel centro di Firenze, discuteva di politica e gli descriveva la città.
Firenze e Oriana hanno molte cose in comune: un senso innato di snobismo, una sete antica di cultura, l’amore per la lingua italiana che Oriana ha conservato sempre nei suoi libri e che la città ha ormai in parte perduto, incapace anche di risciacquare i panni in Arno; un’ironia glaciale, capace di ferire a fondo, una voglia di vita infinita. Una profonda gelosia per le cose amate e il medesimo senso inappellabile dell’addio per quelle perdute. Senza rimpianti.
La nostra fu una amicizia timida e litigiosa. Fatta di poche parole, di rari incontri, di scambi di opinioni, di confessioni coraggiose. Mi diceva: per amare Firenze bisogna starle lontano.
Firenze era Oriana e viceversa. Una sera venne a ‘La Nazione’, mi strappò dalla scrivania e: “vieni con me. E’ finito tutto anche il giornalismo. Non sapete più fare il vostro mestiere. Vieni con me”.
Mi trascinò in piazza San Giovanni dove gli eritrei avevano alzato una loro tenda di protesta. Cosa giusta protestare contro la politica. Meno giusto era il fatto di orinare contro il muro del Battistero. Questa offesa l’aveva infuriata: “Se lo faccio io contro il muro d’una moschea che mi fanno? Quello è il più bel battistero del mondo e loro lo hanno preso per un pisciatoio. E voi, brutti coglioni, voi tutti zitti. Vergognatevi: state svendendo Firenze”.
Era disperata, infuriata. E per queste critiche più che giuste, Firenze non la perdonò. Né l’ha ancora perdonata. E forse oggi se ne vergogna. Forse l’unico che può rimediare è Renzi, che di Firenze si sente ancora sindaco.
Fuori del cimitero degli Allori, mentre la seppellivano, pensai che se ne andava l’ultima fiorentina vera, che aveva ancora la forza di arrabbiarsi e protestare, che non era ipocrita, che amava la sua città in assoluto, che si scomodava a venir giù da New York o da Greve, per difenderla a viso aperto. Capace ancora d’essere ironica non per il gusto d’aprir bocca, com’è ormai uso, ma per dire qualcosa di sanguinosamente vero. Per difendere la sua città.
A New York, in una piccola libreria gestita da due anziane e simpatiche signore, raccoglieva antichi libri su Savonarola o il Guicciardini. Storie della ‘sua’ città. Le capitò fra le mani, grazie a una delle due proprietarie, un libretto da poco sui giornalisti della Firenze dell’Ottocento. Non mi ricordo chi l’aveva scritto. Ma ricordo le sue parole: “Che strano, la nostra è una città di giornalisti che non ha più giornalisti. Peccato”. Sfogliava il libretto con grazia, con una cura quasi materna. Poi aggiunse: “Non è vero qualcuno, ma solo qualcuno, c’è ancora. Quel che è sempre più raro è il coraggio di non volere padroni”.
L’ultima volta mi telefonò da New York, stava male, l’alieno, come lei chiamava il cancro, la stava anche accecando. Io ero nel Tennessee. “Ti do un incarico”, mi disse. “Da ora in poi guarda Firenze anche per me. Vai su a Fiesole e salutamela dall’alto. E conserva per me il suono della campane. Io non la vedrò più”.
E invece la rivide, soffrendo. Perché, come era logico, venne a morire a Firenze, che fece finta di nulla. Come se non fosse morta affatto. E che sta ancora pensando se valga la pena intitolarle una strada, uno slargo, un viottolo. E questo semplicemente perché ha sostenuto una verità culturalmente incontrovertibile: ha sostenuto che i musulmani non volevano conquistare l’Europa e le sue terre, ma le anime degli europei. Allah Akbar.